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Ricordi di Varigotti

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Ho conosciuto Varigotti nel 1966, quando avevo sei anni, e da allora, nella mia mente, sono rimasti ricordi indelebili.

Affittavamo per tutto l’anno un appartamento al numero 28 della Strada del Pepe, il tracciato originale della vecchia via Aurelia romana, così chiamato perché c’erano gli alberi del pepe che, purtroppo ora non ci sono più per lasciare spazio per parcheggiare.
Arrivare a Varigotti era per me una gioia e abbandonarla, sempre un gran dolore.

I ricordi più stabili sono quelli legati agli arrivi fuori stagione, con mio padre che ci portava al mare, prima con una Fiat 1500 quando ancora abitavamo a Torino e prendevamo l’autostrada Torino-Savona (che in realtà partiva da Fossano se non ricordo male) e poi con un’altra Fiat, la 125S quando ci siamo trasferiti a Milano, facendo la Milano-Serravalle-Genova-Savona.

Ecco, quando arrivavo a Savona iniziavo a sentirmi in vacanza e il puzzo orribile di Vado mi confermava che ero vicino all’amata Varigotti; subito dopo c'era il saluto al faro, lo sguardo su Bergeggi, il lento passaggio dentro Spotorno perché ancora non esisteva la "tangenziale" e via verso la galleria paramassi prima di Noli.

Noli era l’ultimo baluardo, Noli era la quinta repubblica marinara che nemmeno i maestri di scuola sapevano esistere, Noli era "ancora quattro chilometri e siamo arrivati".
Curva a sinistra e poi la salita verso le due gallerie di Capo Noli e il successivo zigzagare di curve dalle quali si vede finalmente il promontorio di Punta Crena che separa la baia dei Saraceni dall’abitato di Varigotti.

Sulla solita curva, il solito urlo di gioia nel vedere il solito leone di pietra o meglio, la solita pietra a forma di leone.
Discesa, galleria, baia dei Saraceni e finalmente il cartello: "Varigotti, il paese del silenzio".
Ero arrivato!
Dopo la galleria ero a Varigotti, nuovamente, dopo tanta attesa, ero di nuovo nella mia amata Varigotti!
Il ristorante la Muraglia, il negozio di Sebastiano e subito a destra in salita sperando che il passaggio a livello sia aperto altrimenti passeremo sicuramente dal sottopassaggio stretto e basso; il rumore delle ruote che attraversano le rotaie accompagna i sobbalzi della macchina, la pianta di mimosa e i cartelli "zimmer frei" delle pensioni mi salutano come a ogni arrivo. Su, dai, ecco la pensione Lux e l’hotel Harmony dell’amico Marco.
Davanti a casa c’è posto per la macchina, come si ferma salto giù e sono felice come un bambino: ero un bambino!

Abitavamo al primo piano che, come per molte case liguri, significa piano a livello della strada da un lato e secondo piano dall’altro lato. Una casa carina con due stanze da letto, un corridoio a "L", un soggiorno, cucina e bagno. Il costruttore aveva certamente risparmiato e quasi ogni stanza aveva un pavimento diverso: un tipo di graniglia per le due camere da letto, un secondo tipo per il soggiorno, nel corridoio delle piastrelle rosso/bordeaux in rilievo, ondulate piastrelle blu in bagno e un altro tipo ancora per la cucina.
Non c’era riscaldamento, quindi d’inverno usavamo delle strane stufe a gas di cui ricordo ancora l’odore della combustione anche se non riuscirei mai a descriverlo. Sembravano delle antenne paraboliche con al centro una serpentina dove bruciava il gas, quando si riusciva ad accenderlo dopo infinite prove, regolazioni e spegnimenti. I primi due o tre giorni era un’agonia entrare nel letto gelido e umido per andare a dormire, ma la gioia di essere a Varigotti era tale che battevo i denti felice.

Le nostre finestre davano sulla strada ed era incredibile come una gatta locale, vedendo le tapparelle alzate venisse a miagolare davanti alla porta di casa per presentami i nuovi nati e avere un piattino di latte. Alla sera mi portava un micio, che tenevo in casa per la notte dopo averlo nutrito e coccolato un po’. Alla mattina successiva trovavo la gatta sullo zerbino che reclamava il figlio. Alla sera però ne portava un‘altro. Era una gatta tartarugata affettuosissima che ha abitato in zona per alcuni anni. Uno dei suoi figli ha fatto parte della famiglia per alcuni anni. Era una femminuccia, l’avevo chiamata Pulce per via di tutto quello che è saltato via dal suo pelo quando l’ho "trattata". E’ morta giovane, un mese esatto dopo la morte di mio padre e nello stesso modo: emorragia cerebrale. Era la "mia" gatta nel senso che stava sempre con me, ma da quando è morto mio padre dormiva sempre sotto il suo letto o si acciambellava sotto la sua poltrona come se lo stesse aspettando. Otto anni dopo un altro micio varigottino è entrato in casa mia, Junior, adottato al campeggio Valentino. Un bellissimo gatto tigrato grigio chiaro su grigio scuro con gli occhi verdi. Ha vissuto con me per 13 anni.

Le stufe a gas e i fornelli mi fanno ricordare di "Gengis Khan", il signore dell’Arca che portava ai clienti le bombole del gas sul suo vespino 50. Entrava in casa con la bombola in spalla e sostituiva con due giri di chiave inglese quella vuota.  
Ero felice perché Varigotti, per me bambino, significava libertà: se rispettavo la regola potevo addirittura andare in giro da solo! La regola era semplicissima, non dovevo attraversare l’Aurelia e dovevo servirmi dei vari sottopassaggi che contraddistinguevano Varigotti. Alcuni passavano sotto la strada e altri passavano sotto la ferrovia ed era un gioco correre verso il sottopasso quando si sentiva il fischio del treno per ascoltarne il rombo prodotto restando all’interno della piccola galleria.

A quei tempi Varigotti non era come la si vede adesso. Le case del Borgo Vecchio non erano tirate a lucido, anzi abbondavano di scrostature, il cotto della pavimentazione della strada principale era consumato, ma a me piaceva così. Sulla spiaggia, soprattutto vicino al molo, c’erano i gozzi sui loro legni di alaggio e le reti erano stese sulla sabbia per asciugare o per essere riparate  dai pazienti pescatori.
Era ancora un villaggio di pescatori e non c’era molto, oltre la spiaggia e il mare.

In compenso c’erano i temporali notturni che facevano mancare la luce. In case era sempre una torcia a portata di mano per andare a prendere candele e fiammiferi. Era un gioco, la casa cambiava a lume di candela, tutto era buio e i lampi dei fulmini che cadevano vicini proiettavano strane luci sui muri attraverso le finestre. Che botti!

Che piacere arrivarci nei week-end fuori stagione e andare ogni volta alla scoperta del Borgo Vecchio, passare davanti alla latteria, per poi arrivare al Bazaar sull’angolo e farsi comperare qualche giocattolo, una pistola ad acqua, dei soldatini dell’Airfix, una macchinina della Matchbox o delle bolle di sapone, quelle con il labirinto con la sferetta di metallo nel tappo. E poi la sosta a salutare Gigi il parrucchiere, che se non ricordo male aveva la classica poltroncina per bambini con il cavallino sul davanti.
Poi si passava davanti alla Lilo, sotto l'arco e si arrivava in piazza Cappello da Prete con la sua stazione meteorologica dove mio padre picchiettava il dito sul barometro per vedere che non fosse incastrato. Anni dopo hanno avuto la brillante idea di proteggerlo dietro una rete metallica.
Non ho mai capito il nome della piazza. Come si fa a intitolare una piazza ad un cappello? L’unica cosa che so è che i fiori del pitosforo quando sono ancora chiusi sono chiamati cappelli da prete per la vaga somiglianza con il copricapo che veniva usato una volta, quello Don Camillo per intenderci. Forse prima delle palme c’erano i pitosfori come in molte altre parti di Varigotti?
Ancora qualche metro, bastava superare Beneitu il ristorante, e finalmente la piazzetta dei pescatori con il molo e la sua punta sempre rotta dalle mareggiate.
Le domeniche d'estate la piazzetta si trasformava in chiesa e veniva servita messa su un gozzo come altare alle nove del mattinno. A levante del molo, ai tempi c’erano solo massi, poi sono comparsi dei cubi di cemento, poi un’intera gettata.
Mi arrampicavo sugli scogli e, con un coltellino svizzero, staccavo le patelle che porgevo a mio padre, che dopo una spruzzata di limone e solo se l’animale era chiaro, si mangiava con gusto.

Che bello era arrivare a Varigotti e trovare le spiagge deserte, camminare sulla sabbia alla ricerca di strani legni portati dalle mareggiate invernali. Uscivo di casa a piedi nudi, passavo attraverso i due sottopassi e seguivo il carrugio che portava nella minuscola piazzetta che dava sulla spiaggia della Giara, il più bell’albergo di Varigotti: ero in spiaggia. A destra vedevo Finale con il porto, ancora di piccole dimensioni, a sinistra il molo con Punta Crena sormontata dalla torre di avvistamento.

La Torre, quanti ricordi, quante notti in bianco ad aspettare l’alba ascoltando gli amici che suonavano la chitarra e le ragazze che cantavano le canzoni di Battisti.
E quella volta che, ero già più grandicello e iniziavo ad appassionarmi alla fotografia, mi ero portato la macchina fotografica per immortalare l’alba dopo la solita notte in bianco? Ero pronto allo scatto, con la macchina, una Voigtlander Vitomatic II, montata sul cavalletto che puntava verso est. Ero pronto ad immortalare il sole appena avesse fatto capolino all’orizzonte, sapevo anche l’ora esatta, al minuto, in cui sarebbe sorto.
Ma quella mattina era in ritardo. Come è possibile che il sole sia in ritardo?
Dopo qualche minuto ecco la prima unghia di sole, ma non era sorto dal mare, bensì da dietro le nuvole e ben sopra la linea dell’orizzonte. Che rabbia! Decido allora di fotografare Varigotti con le ombre lunghe delle prime luci: sposto cavalletto e macchina e punto l’obiettivo e cosa vedo di strano?
Cosa c’è sul molo? Quasi in punta al molo, poco prima della balaustra alla quale ci aggrappavamo quando c’erano le mareggiate per farci schiaffeggiare dalle onde, c’era una cabina telefonica! Forse la mia era l’unica fotografia dall’alto (ormai perduta) di quel gesto di ribellione nei confronti della SIP che voleva installare una cabina telefonica in piazza Cappello da Prete. Per la cronaca: vinse la SIP e l’orribile cabina venne installata in uno degli scorci più carini di Varigotti.

Pensare alla Torre e pensare all’eremita è un tutt’uno.
L’ho visto pochissime volte, non l’ho mai visto parlare con nessuno. So che viveva nel rudere di fianco alla torre evitando il più possibile la gente, non conosco la sua storia. Lo abbiamo visto per alcuni anni, poi è sparito, non so che fine abbia fatto. Fa parte anche lui dei ricordi e, anche se non sapevo nemmeno il suo nome, lo ricordo sempre con affetto.

Da bambino, le passeggiate alla Torre, alla chiesetta di San Lorenzo, al "Semaforo" di Capo Noli e al Pian dei Fichi erano le escursioni di rito nelle nostre permanenze autunnali o primaverili.
Mi ricordo, in primavera, iniziare a salire il sentiero che porta alla chiesetta e vedere la ginestra in fiore e poi le vasche d’acqua con le rane che di notte gracidavano e poi su, in mezzo agli ulivi, sino al bivio: a sinistra per il "Semaforo", a destra per San Lorenzo. Era messa male, ma aveva il suo fascino e poi da quella terrazza naturale sulla baia dei saraceni si godeva una vista spettacolare. C’erano giorni in cui l’acqua era talmente limpida e calma che le barche sembravano volare sul fondo, non galleggiare sul mare.

Finivano le scuole a metà giugno e subito si partiva per Varigotti e la prima azione era andare alla ricerca degli amici dell’estate precedente. Si correva agli stabilimenti balneari per vedere chi c’era e chi mancava. Si rinsaldavano le amicizia e subito si trovava un sedere per "tirare" la pista delle biglie ricca di curve paraboliche e lunghi rettilinei sui quali si sfidavano i Gimondi, i Bartali, i Coppi, i Merckx. A quei tempi la diga foranea del porto comunale di Finale Ligure era molto più corta di quanto sia adesso e la spiaggia di Varigotti era di sabbia fina e digradava omogenea sino alla battigia. Poi hanno allargato il porto e la mia spiaggia ha perso la sabbia ricevendo in cambio del ghiaino col quale era impossibile disegnare piste per le biglie o costruire vulcani e castelli. Si era anche formato un netto scalino sul bagnasciuga.
Ma torniamo ad allora, al tempo delle biglie, dei castelli e dei vulcani. La sabbia della Baia dei Saraceni era talmente fina che si mescolava con l’acqua e colandola si facevano i pini.

Si cresce e da bambini si diventa ragazzi, ma Varigotti non cambia, rimane immutata sempre la solita bella stessa Varigotti. Varigotti era una certezza, l’avresti ritrovata come l’avevi lasciata.
Anno dopo anno ne riconoscevi sempre gli stessi odori, gli stessi colori e gli stessi amici. Le defezioni da Varigotti erano rare.
Aumenta il giro di amicizie, si va in avanscoperta presso altri "Bagni" si creano nuovi rapporti, si conosce la mitica "Panchina" del tennis.

Il Tennis della Caravella è parte integrante della Varigotti dei miei ricordi.
Appena raggiunta l’età per la quale avevo il permesso di uscire la sera, il punto di ritrovo era la Panchina. Per la verità il diritto alla Panchina era dei "grandi" e noi piccoli di 12/13 anni ci dovevamo accontentare delle zone limitrofe. Ci trovavamo in zona "Panchina", in periferia. Ma è una gavetta che dura poco fortunatamente e trovarsi alla "Panchina" divenne un diritto con i benefici che ne conseguivano, tipo guardare i mitici incontri di tennis stando con il sedere appoggiato allo schienale.
Che matches! Terruzzi, Ferrari, Narcisi, Berio e tanti altri ci hanno regalato partite bellissime. Qualcuno ci scommetteva pure! Alla sera si formava il capannello di gente a guardare i "Campioni" che si sfidavano sulla terra rossa. Il maestro Fiorenzo organizzava il torneo estivo dove pur essendo io una ineguagliabile schiappa sono riuscito a vincere una coppa come terzo classificato nel doppio giallo: in pratica ad ogni incontro si cambiava il compagno di squadra e io ho avuto la fortuna di avere come soci i migliori del torneo mentre gli avversari erano mediamente scarsi. Faceva quasi tutto il mio socio di turno. Una coppa altamente immeritata, ma pur sempre una coppa.

La Panchina non era solo tennis, era il punto di inizio della serata, era l’ora X. Lì si decideva il da farsi. Si partiva per andare a fare il falò alla Baia dei Saraceni con il rituale bagno di mezzanotte, si attraversava la strada per andare alla discoteca sotto il Plaza, si scendeva in "Ufficio" per cantare in spiaggia, si saliva sulla macchina per andare a Finale o a Calice a prendere il frappè, si andava a fare una passeggiata romantica al Borgo Vecchio mano nella mano con la fidanzatina di turno. Insomma un gran daffare.
La vita era questa, da metà giugno a fine settembre, sino a quando le scuole iniziavano a ottobre, poi un giorno un ministro dell’istruzione ci rubò 15 giorni di vacanza, i più belli però, quelli di fine settembre.

Settembre a Varigotti è un mese meraviglioso, il caldo non è più estenuante e iniziano le giornate di tramontana che rende l’acqua cristallina e il mare piatto. Si stava in spiaggia sino dopo il tramonto. Alle otto di sera l’ultimo bagno dove, vista l’aria frizzante, il mare sembrava ancora più caldo. Ti sentivi un re: sulla spiaggia erano rimaste poche sdraio e ombrelloni, ancor meno cabine dove cambiarsi. Varigotti si preparava alle stagioni nelle quali la popolazione tornava ad essere composta da quelli che a Varigotti ci erano nati.

L’ultimo bagno era quello per il quale avevo diritto a non farmi la doccia prima di tornare in città per poter sentire sulla pelle l’odore del sole, dello iodio e del sale. Il giorno dopo mi leccavo il braccio ed ero felice di sentire il sale sulla lingua, ma ahimè, nonostante dure lotte alla sera ero costretto a lavarmi e a perdere l’ultimo contatto sentimentale con Varigotti. Allora la mia mente già correva alle prime feste: i Morti e Sant’Ambrogio erano vicini e poi ci sarebbe stato Natale. Ai tempi non andavamo in montagna, esisteva solo Varigotti. E poi ci sarebbe stata Pasqua, potevo resistere un altro anno aspettando i tre mesi estivi di vacanza.

Certo era dura stare lontano dalla focaccia dell’Enrica, ma quanto era buona? Bella unta e calda appena sfornata. Nella vietta che portava alla stazione, in fondo a sinistra il forno e Enrica presente sempre, estate e inverno pronta a smerciare focaccia e sfogliatelle.  Dovevi muoverti alla mattina, altrimenti finiva, rimanevi senza e dovevi aspettare il pomeriggio.

Il forno dell’Enrica è uno dei capisaldi come molti altri, che per me, sono parte integrante di Varigotti.

Oggi se non c’è campo per il nostro telefonino assistiamo a scene isteriche.
Fino ai primi anni ’70 non solo non esistevano i cellulari e a Varigotti c’erano ben pochi telefoni nelle case dei villeggianti. Per telefonare a Milano a mio padre, che durante la settimana lavorava mentre la famiglia era al mare a spassarsela per più di tre mesi, si attraversava l’intero paese per andare alla latteria che aveva il telefono con il contascatti, assai più economico del telefono a gettoni. A quei tempi le telefonate urbane costavano un gettone o uno scatto indipendentemente dalla durata mentre per le interurbane sentivi i gettoni scendere sempre troppo velocemente. Allora per telefonare più spesso ricorrevi al telefono a scatto della latteria che costava meno, ma dovevi fare la coda. Quindi dopo cena si partiva dalla strada del pepe e si faceva tutto il lungomare tra palme, oleandri e pitosfori per arrivare alla latteria e per i bambini c’era il premio del gelato.
Poi hanno messo due cabine telefoniche, una in mezzo al paese davanti alla farmacia e l’altra, la tanto contestata cabina del borgo vecchio, nella piazza cappello da prete. Erano più comode per noi, ma non avevano lo stesso fascino della latteria e soprattutto non c’era il premio.

Si andava al cinema all’aperto e lo spettacolo iniziava ancor prima di entrare: la bancarella dei dolciumi vendeva stringhe e bastoni di liquirizia, mandorle caramellate, semi di zucca e tutto quanto potesse fare male e c’era il distributore rosso della Coca Cola e forse anche della Fanta. Si prendeva posto su delle seggiole tremende, di una scomodità assoluta, e si aspettava l’inizio del film facendo più o meno casino. In giugno e luglio i primi dieci minuti erano sbiaditi per colpa del cielo ancora troppo luminoso, ma poi si riusciva a vedere bene. A quel tempo c’era ancora la ferrovia che passava 5 metri dietro lo schermo e quando passavano i lunghi treni merci perdevi i dialoghi, ma andava bene lo stesso. Quanti primi baci e quante prime palpatine ha visto quel cinema, dietro, sotto la tettoia o vicino all’albero di fichi.
 
I fichi, il pian dei fichi. Sulla strada che porta a Isasco, a metà collina c’è il Pianoro o Pian dei Fichi che dir si voglia dove una serie di piante di fico avevano attecchito bene e regalavano deliziosi frutti, bianchi o neri, a tutti coloro che li raccoglievano. Si partiva cestino alla mano e si andava a fare la raccolta verso la fine di agosto o anche primi di settembre. Si saliva passando dietro il cinema e si tornava indietro per il sentiero di mezzacosta che passava sotto il Dito del Gigante, per terminare a fianco di Villa Anna nei pressi del passaggio a livello.

Dal Pian dei fichi si poteva continuare la passeggiata e arrivare in cima alla montagna, a Isasco.
Isasco, l’amico Desirè e la sua casa.
In quel periodo, non ero ancora maggiorenne, avevo tutti amici più grandi me di 2, 3 o 4 anni. Desirè era uno di loro e aveva una casa a Isasco dove si passava la sera mangiando, bevendo, cantando e pomiciando. Aveva un pentolone da esercito in cui cuocevamo chili e chili di pasta su un fuoco di legna acceso ore prima. Non avevamo uno scolapasta così grande e si usava un lenzuolo tenuto ai quattro angoli da altrettanti coraggiosi che non avevano paura si sbollentarsi i piedi. Vermentino fresco e cibo alla brace completavano le nostre cene. Il problema era tornare a casa: ogni volta che si saliva a Isasco si sapeva che si scendeva completamente sbronzi e non era facile, di notte, per ripidi e stretti sentieri in polverosa terra mantenere l’equilibrio. Ogni tanto qualcuno finiva fuori "strada" e ruzzolava per qualche metro a valle. Visto che durante l’estate si decimava la scorta di legna che serviva anche per scaldare la casa in inverno, l’ultima settimana di vacanza era dedicata alla raccolta di legna nei boschi. Altro sistema per bere e fare caciara.

Se dopo Isasco si continua la strada verso Le Mànie sia arriva sull’altopiano dove si esploravano i boschi alla ricerca della famosa Grotta delle Fate. Non sapevamo bene dove fosse, ma dopo svariate esplorazioni riuscimmo a trovarla e organizzammo, seduta stante, la "Spedizione speleologica" visto che ci eravamo preventivamente muniti di torce. Entrammo in sei o sette e dopo aver girato un po’ ci perdemmo e non trovammo più l’uscita. Ognuno diceva la sua, vai di qua, no andiamo di là, aspettiamo i soccorsi, qui non ci trova nessuno, ma qualcuno sa che siamo in grotta?, cosa facciamo?, spegniamo le torce e risparmiamo le pile mentre pensiamo cosa fare. Eravamo al buio e silenziosi quando sentimmo delle voci e poco dopo un bagliore. Accendemmo subito una torcia e vedemmo arrivare un gruppetto di persone. Gli chiedemmo da dove arrivassero e ci risposero che erano appena entrati. Ma come? Quella da dove arrivate è l’uscita?
Entrando nella grotta era necessario strisciare per terra e non ci eravamo accorti che l’ultimo tratto del passaggio era in salita. Dall’interno l’uscita sembrava una via che si addentrava ulteriormente in profondità e qualche buontempone aveva scritto sulla volta "Pericolo, non proseguire". Eravamo seduti a pochi metri dalla via d’uscita e non lo sapevamo. Da allora ho imparato a guardarmi sempre indietro per memorizzare il percorso anche nel senso inverso ed evitare il rischio di perdermi e ho fatto altre visite alle Grotte delle Fate sino a quando le autorità ne hanno bloccato l’accesso.
Il rito conclusivo delle perlustrazioni di Le Mànie, che fosse per le grotte o per la cava di tufo dove ci si buttava giù dalle discese come se si fosse su uno scivolo, era sempre lo stesso: il bagno in mare vestiti ammirando la chiazza che lasciavamo.

Varigotti significava per me anche immersioni, in apnea o con le bombole, di giorno o di notte. Non ho mai pescato nulla, ho sempre solo guardato anche perché, siamo onesti, di pesce ce n’era poco e se solo osavi portarti sotto un fucile subacqueo sembrava che lo riconoscessero e spariva a… pinne levate.
Le Ciappole, la caratteristica scogliera che corre davanti a tutta Varigotti me la sono fatta centinaia di volte, come il periplo di punta crena o il giro di Bergeggi dove una nave romana naufragò distribuendo cocci di terracotta sul fondale.  
Le ultime immersioni erano per i Morti e spesso le facevamo dopo il tramonto in notturna. Mi ricordo di una volta che al termine dell’immersione siamo andati a bere un punch all’arancio al bar Vittoria. Avevamo preso tanto di quel freddo che non ci siamo tolti nemmeno la muta, tutti neri come se fossimo Diabolik abbiamo attraversato l’Aurelia con i passanti che ci prendevano per pazzi.
Un anno, uno del gruppo sub trovò dei resoconti di pescatori finalesi che nei primi del novecento per ben due volte, pescando a strascico sulla batimetrica dei 50 metri, trovarono anfore romane contenenti vino. Ovviamente venne subito organizzata la "Spedizione archeologica subacquea" alla ricerca del relitto affondato. Decidemmo di fare un’immersione al giorno legati da una sagola che ci teneva distanziati di cinque metri uno dall’altro per meglio perlustrare il fondale. Risultato della battuta: ho trovato mille lire di carta adagiate sul fondo e un paio di occhiali da sole.

Varigotti è anche "Coccobello" e il tizio con il "cappello e la fisarmonica".
Il primo aveva una voce che si sentiva, giustamente, a gran distanza e ti rifilava un pezzo di cocco sciacquato in un secchio di plastica blu contenente acqua fresca, ma non so quanto pulita, in cambio di non ricordo più quante lire.
L’altro, quello con la fisarmonica e il cappello con tanti biglietti infilati sotto il nastro, si limitava a suonare e a chiedere soldi che evidentemente in molti gli davano visto che un giorno abbiamo letto un articolo sul giornale dove si diceva fosse miliardario. In effetti era conosciuto in tutta la riviera di ponente: si batteva tutte le spiagge, bello paffuto, abbronzato e sempre con il sorriso stampato in faccia.


 
 
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